Data  20/11/2021 02:30:44 | Sezione Varie Varie

IL TAR LAZIO RESPINGE L’ISTANZA DI SOSPENSIVA AVANZATA DA DIRPUBBLICA - PUBBLICHIAMO L’ATTO.



Si è concluso con un rigetto il primo passaggio di un contenzioso che, per sua natura e per il contesto entro cui ha avuto origine, è idoneo ad articolarsi nel tempo (e in tempi migliori). Nessuno si era illuso, ma nessuno avrebbe mai immaginato che uno dei più prestigiosi Giudici d’Italia potesse capovolgere i termini della questione. Vedasi note.




Con ordinanza del 19 novembre u.s., il TAR del Lazio ha respinto l’istanza di sospensiva contestuale al ricorso proposto da Dirpubblica per l’annullamento delle “Linee guida in materia di condotta delle pubbliche amministrazioni per l’applicazione della disciplina in materia di obbligo di possesso e di esibizione della certificazione verde Covid-19 da parte del personale”, nella parte in cui stabiliscono un divieto per i lavoratori che ne siano sprovvisti di essere adibiti al lavoro agile (c.d. smart-working).

Come più volte precisato, il ricorso non riguardava la legittimità dell’impiego per la «certificazione verde Covid-19» (c.d. green pass); dunque, la considerazione per cui «la normativa sul passaporto vaccinale ed i conseguenti decreti attuativi rientrano in un ambito di misure concordate e definite a livello europeo in un’ottica di tutela della salute pubblica e di ripresa dell’economia» non spiega affatto per quale ragione sarebbe legittimo anche il divieto di adibire i lavoratori che ne siano sprovvisti al lavoro agile.

Contrariamente a quanto ritenuto dal Collegio, un simile divieto, introdotto con le “Linee guida” impugnate, non trova alcuna «copertura di fonte primaria nel D.L. 52/2001», come risulta dalla lettura dell’art. 9-quinquies del suddetto decreto, il quale stabilisce chiaramente che l’«obbligo di possedere e di esibire, su richiesta, la certificazione verde COVID-19» è richiesto «ai fini dell’accesso ai luoghi di lavoro» e non certo per lo svolgimento della prestazione lavorativa presso il domicilio del lavoratore.

Invero, la ratio decidendi risulta chiaramente espressa in un successivo passaggio della motivazione, laddove il Collegio ha ritenuto che «l’accoglimento del ricorso porterebbe ad una sostanziale elusione del suddetto dettato normativo».

Ora, se è vero che, come detto, il c.d. green pass è stato reso obbligatorio ai soli «fini dell’accesso ai luoghi di lavoro», non si capisce proprio in che modo l’adibizione in modalità di lavoro agile dei dipendenti che ne siano sprovvisti eluderebbe la suddetta normativa, visto che questi non dovrebbe affatto accedere in alcun altro posto che non sia il loro domicilio; d’altra parte, se la finalità dichiarata dall’9-quinquies è quella «di prevenire la diffusione dell’infezione da SARS-CoV-2», neanche si vede come una simile finalità possa ritenersi compromessa dalla collocazione dei dipendenti in questione in regime di smart-working, tanto più che il lavoro agile è stato largamente utilizzato durante tutta la durata dell’emergenza (ancora in corso) quale misura di prevenzione del contagio (v. art. 87 del D.L. n. 18 del 2020).

Ancora meno condivisibile è l’ultimo passaggio della motivazione in cui il Collegio ha rilevato che «la sospensione dei provvedimenti contestati condurrebbe ad una discriminazione ai danni dei lavoratori già vaccinati che, in tal caso, verrebbero ad essere sistematicamente posposti ai non vaccinati nella scelta dei lavoratori da adibire a lavoro agile», sul quale si fonda, presumibilmente, anche il dubbio relativo alla «… ammissibilità del ricorso in ragione della non omogeneità dell’interesse fatto valere».

Innanzitutto, la Dirpubblica non ha mai sostenuto che i lavoratori sprovvisti della «certificazione verde COVID-19» debbano essere necessariamente adibiti al lavoro agile a dispetto degli altri lavoratori che ne sono in possesso; piuttosto, ed è questa la tesi sostenuta, le singole amministrazione dovrebbero valutare, caso per caso, se le mansioni alle quali gli uni e gli altri sono concretamente assegnati nello specifico contesto organizzativo possano essere svolte in modalità di lavoro agile e in condizioni di parità di trattamento nel rispetto della relativa disciplina legale e contrattuale.

Sulla base di questa premessa e tenuto conto che lo smart-working non è affatto una misura premiale ma una modalità di organizzazione del lavoro, non si comprende perché, una volta sospeso il divieto (illegittimamente) stabilito dalle “Linee guida”, i «vaccinati» verrebbero ad essere «sistematicamente postposti» ai «non vaccinati» nella scelta dei lavoratori da adibire a lavoro agile.

Piuttosto, il divieto di adibire al lavoro agile le persone della seconda categoria (i «non vaccinati») si risolve in una discriminazione nei loro confronti perché queste finiscono per essere trattate «meno favorevolmente» di quanto siano trattate le altre persone (i «vaccinati») «in una situazione analoga», e ciò sulla base di una «convinzione personale» (quella di non voler aderire alla campagna vaccinale che, per quanto soggettiva, rimane) del tutto legittima, considerato che ad oggi lo Stato non si è voluto ancora assumere la responsabilità di imporre un obbligo vaccinale generalizzato.

La questione di fondo è allora la seguente: se ancora c’è una libertà di scelta (e se c’è non può non esserci) è legittimo discriminare le persone sulla base delle scelte che hanno poi liberamente compiuto?

Allegati:

Download   20211119_da_TAR-Lazio-1a-6530_.pdf

(Ordinanza 6530 19/11/2021 TAR Lazio, 1a sezione - 135,3Kb)



Tags Tar Lazio 1a, rigetto, ordinanza 6530, smart working, linee guida