Con due recente sentenze, la numero 103 e la numero 104 entrambe depositate il 23 marzo ultimo scorso la Corte Costituzionale si è occupata del cosiddetto “spoil system”.

 

In particolare con la prima delle due sentenze, il Giudice delle Leggi ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 7 delle legge 145 del 2002 (nota come “Legge Frattini”) nella parte in cui dispone che gli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale e a quelli di direttore generale degli enti pubblici vigilati dallo Stato, ove è prevista tale figura, “cessano il sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della presente legge, esercitando i titolari degli stessi in tale periodo esclusivamente le attività di ordinaria amministrazione”.

 

Con la seconda sentenza, la Corte Costituzionale ha invece dichiarato:

 

-   “l’illegittimità costituzionale del «combinato disposto» dell'articolo 71, commi 1, 3 e 4, lettera a), della legge della Regione Lazio 17 febbraio 2005, n. 9 (Legge finanziaria regionale per l'esercizio 2005), e dell'articolo 55, comma 4, della legge della Regione Lazio 11 novembre 2004, n. 1 (Nuovo Statuto della Regione Lazio), nella parte in cui prevede che i direttori generali delle Asl decadono dalla carica il novantesimo giorno successivo alla prima seduta del Consiglio regionale, salvo conferma con le stesse modalità previste per la nomina; che tale decadenza opera a decorrere dal primo rinnovo, successivo alla data di entrata in vigore dello Statuto; che la durata dei contratti dei direttori generali delle Asl viene adeguata di diritto al termine di decadenza dall'incarico

 

-  l’illegittimità costituzionale   “dell'art. 96 della legge della Regione Siciliana 26 marzo 2002, n. 2 (Disposizioni programmatiche e finanziarie per l'anno 2002), nella parte in cui prevede che gli incarichi di cui ai commi 5 e 6 già conferiti con contratto possono essere revocati entro novanta giorni dall'insediamento del dirigente generale nella struttura cui lo stesso è preposto”.

 

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Con tali sentenze, dunque, la Corte Costituzionale ha bocciato senza appello il cosiddetto “sistema delle spoglie”.

 

La rilevanza di tali pronunce può essere valutata sotto due distinti  profili.

 

La Corte Costituzionale (con la  sentenza 103), partendo dal presupposto che  a regime “la revoca delle funzioni dirigenziali legittimamente conferite ai dirigenti … può essere conseguenza soltanto di una accertata responsabilità dirigenziale in presenza di determinati presupposti e all’esito di un procedimento di garanzia puntualmente disciplinato”, ha statuito che “la norma impugnata – prevedendo un meccanismo (cosiddetto spoil system una tantum) di cessazione automatica, ex lege e generalizzata degli  incarichi dirigenziali di livello generale al momento dello spirare del termine di sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge in esame – si pone in contrasto con gli artt. 97 e 98 della Costituzione.

 La suddetta disposizione, così formulata, infatti - determinando una interruzione, appunto, automatica del rapporto di ufficio ancora in corso prima dello spirare del termine stabilito - viola, in carenza di garanzie procedimentali, gli indicati principi costituzionali e, in particolare, il principio di continuità dell'azione amministrativa che è strettamente correlato a quello di buon andamento dell'azione stessa”.

 

In buona sostanza la Corte Costituzionale ha inteso opportunamente rammentare che, uno dei  principi fondanti del nostro ordinamento è costituito dalla separazione tra “politica” e “amministrazione” e che la previsione di specifici meccanismi valutativi, sottesi  alla revoca degli incarichi dirigenziali è preordinata a garantire “la prosecuzione dell’attività gestoria in ossequio al precetto costituzionale della imparzialità dell’azione amministrativa. Precetto, questo, che è alla base della stessa distinzione funzionale tra l’azione di governo – che è normalmente legata alle  impostazioni di una parte politica, espressione delle forze di maggioranza e l'azione dell'amministrazione, la quale, nell'attuazione dell'indirizzo politico della maggioranza, è vincolata, invece, ad agire senza distinzioni di parti politiche e dunque al «servizio esclusivo della Nazione» (art. 98 Cost.), al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obiettivate dall'ordinamento (in questo senso, sia pure con riferimento ad un ambito di disciplina diverso da quello in esame, vedi sentenza n. 453 del 1990, nonché sentenza n. 333 del 1993)”.

 

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In secondo luogo la Corte Costituzionale pur non prendendo espressamente posizione sulla natura privatistica o provvedimental-pubblicistica dell’atto di conferimento dell’incarico dirigenziale, ha tuttavia chiaramente statuito che, alla revoca degli incarichi dirigenziali sia consustanziale un “momento procedimentale di confronto dialettico tra le parti, nell'ambito del quale, da un lato, l'amministrazione esterni le ragioni - connesse alle pregresse modalità di svolgimento del rapporto anche in relazione agli obiettivi programmati dalla nuova compagine governativa - per le quali ritenga di non consentirne la prosecuzione sino alla scadenza contrattualmente prevista; dall'altro, al dirigente sia assicurata la possibilità di far valere il diritto di difesa, prospettando i risultati delle proprie prestazioni e delle competenze organizzative esercitate per il raggiungimento degli obiettivi posti dall'organo politico e individuati, appunto, nel contratto a suo tempo stipulato”.

 

Tale esigenza  è stata posta in correlazione alla  legge 7 agosto 1990 n.241 ed alla esigenza di rispettare  il “giusto procedimento, all’esito del quale dovrà essere adottato un atto motivato che, a prescindere dalla sua natura giuridica, di  diritto pubblico o privato, consenta comunque un controllo giurisdizionale”.

 

Al riguardo si rammenterà come la Giurisprudenza dei Giudici di merito e  della stessa Corte di Cassazione, abbia  a più riprese statuito che, all’indomani della cosiddetta privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, gli atti di gestione dello stesso rapporto debbono ormai essere considerati alla stessa stregua degli atti di gestione assunti dal privato datore di lavoro, nell’esercizio dei suoi poteri datoriali e che non sono, dunque, passibili di essere sindacati sotto il profilo della violazione delle norme sottese allo svolgimento della attività amministrativa e, segnatamente, dei principi dettati dalla citata legge 241 del 1990.

 

Tale tesi è stata ribadita pure all’indomani della legge 145 del 2002, che pure, nell’articolo 3, parla espressamente di “provvedimento di conferimento dell’incarico”.

 

Ed infatti, quantunque nella stessa  relazione al disegno di legge, si fosse sottolineato che la formula utilizzata non fosse causale, ma costituisse la cifra evidente della riconduzione dell’atto di conferimento dell’incarico dirigenziale nell’alveo  provvedimental-pubblicistico, la Giurisprudenza della Suprema Corte ha continuato a sostenere la natura privatistica dell’atto di conferimento dell’incarico e, conseguentemente, la sua insindacabilità alla luce dei principi sottesi allo svolgimento della attività amministrativa.

 

 

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Con la sentenza n. 104 del 2007,  la Corte Costituzionale ha condotto il suo vaglio su due  distinte normative regionali, rispettivamente della regione Lazio e  delle regione Siciliana.

 

In particolare il Giudice delle Leggi ha condotto il suo scrutinio di legittimità:

 

1)       sulle disposizioni di cui all’articolo 71, commi 1,3,4, lett. a) della legge della regione Lazio n. 9 del 2005, in combinato disposto con l’articolo 55 del nuovo Statuto regionale, nella parte in cui prevedeva la decadenza automatica dalla carica dei direttori generali delle Asl il novantesimo giorno successivo alla prima seduta del (nuovo) Consiglio regionale;

 

2)       sull’articolo 96 della legge della Regione Siciliana 26 marzo 2002 n. 2, nella parte in cui prevedeva che gli incarichi  dirigenziali non di vertice conferiti con contratto possono essere revocati, modificati e rinnovati entro novanta giorni dall’insediamento del dirigente generale nello struttura cui lo stesso è preposto.

 

 

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Orbene la Corte Costituzionale, mutuando le parole del relatore della seconda sottocommissione dell’Assemblea Costituente sul testo che sarebbe diventato l’articolo 97 della Costituzione, ha rimembrato l’esigenza, sottesa a quella norma, di “riassicurare ai funzionari alcune garanzie per sottrarli alle influenze dei partiti politici. Lo sforzo di una costituzione democratica, oggi che al potere si alternano i partiti, deve tendere a garantire una certa indipendenza ai funzionari dello Stato, per aver una amministrazione obiettiva della cosa pubblica e non un’amministrazione dei partiti”.

 

E ancora la Corte ha affermato che “gli artt. 97 e 98 Cost. sono corollari dell'imparzialità, in cui si esprime la distinzione tra politica e amministrazione, tra l'azione del governo - normalmente legata alle impostazioni di una parte politica, espressione delle forze di maggioranza - e l'azione dell'amministrazione, che, «nell'attuazione dell'indirizzo politico della maggioranza, è vincolata invece ad agire senza distinzione di parti politiche, al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obbiettivate dall'ordinamento”.

 

Non è un caso che la Corte abbia ritenuto corollario imprescindibile di tale principio che “la selezione dei pubblici funzionari non ammette ingerenze di carattere politico espressione di interessi non riconducibili a valori di carattere neutrale e distaccato”, ribadendo che “il concorso pubblico, quale meccanismo di selezione tecnica e neutrale dei più capaci, resti il metodo migliore per la provvista di organi chiamati a esercitare le proprie funzioni in condizioni di imparzialità ed al servizio esclusivo della Nazione”.

 

La Corte, infine, rilevato che “la dipendenza funzionale del dirigente non può diventare dipendenza politica” ha ribadito che la cessazione anticipata dell’incarico dirigenziale deve aver luogo nel rispetto del principio del “giusto procedimento”; di tal che il dirigente non può essere posto “in condizioni di precarietà che consentono la decadenza senza la garanzia del giusto procedimento”.

 

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La sentenza 104 del 2007, infine, con riferimento allo scrutinio di legittimità della legge della Regione Siciliana ha specificato i concetti espressi con riferimento alla legge della Regione Lazio, operando una distinzione tra dirigenti apicali e dirigenti non di vertice.

Al riguardo, il Giudice delle Leggi ha ritenuto che se i primi hanno un livello di più stretta contiguità con gli organi politici, non altrettanto può dirsi per i dirigenti non apicali.

E’ sulla base di tale assunto che la Corte ha ritenuto la  illegittimità delle norme regionali impugnate, nella parte in cui  prevedevano che gli incarichi non apicali potessero essere revocati entro novanta giorni dall’insediamento del dirigente generale nella struttura cui lo stesso è preposto.

 

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Concludendo, le sentenze 103 e 104 del 2007 della Corte Costituzionale, per quanto esprimono, non possono non essere accolte favorevolmente.

 

Ed invero, è evidente, come tali sentenze, attraverso la caducazione della norme censurate, esprimano e ribadiscano inalienabili principi fondamentali della nostra civiltà giuridica e del nostro ordinamento costituzionale  e, segnatamente:

 

1) la separazione tra la sfera della politica e quella dell’amministrazione, censurando meccanismi che associano al mutamento della maggioranza politica l’effetto di produrre la risoluzione ante tempus  degli incarichi dirigenziali (con la conseguente  necessità che la revoca degli incarichi proceda da una valutazione della prestazione resa e non possa, dunque, essere affidata ad alcun automatismo)

 

2) la regola del pubblico concorso per l’accesso agli impieghi pubblici, quale garanzia di imparzialità;

 

3) la necessità che l’azione amministrativa, indipendentemente dalla circostanza che si svolga secondo moduli pubblicistici o privatistici, si svolga nel rispetto del principio del giusto procedimento e con modalità idonee a consentirne (anche sotto questo profilo) il sindacato giurisdizionale.

 

Inutile dire come la riaffermazione di tali principi si traduca nell’apertura di inediti scenari ed in un (ri)ampliamento degli ambiti di tutela giurisdizionale, sinora in qualche misura compressi dalla pedissequa applicazione al rapporto di impiego pubblico e, segnatamente, al conferimento degli incarichi dirigenziali di categorie concettuali forse troppo disinvoltamente mutuate dall’esperienza del lavoro privato e dalle acquisizioni della dottrina giuslavoristica, ma non adeguatamente filtrate attraverso il setaccio della peculiarità del rapporto di impiego pubblico e, segnatamente, dei principi di ordine costituzionale che lo governano.

 

 

avv. Stefano Viti